“Le perplessità di Cristian Varisco manifestate nell’articolo sul fermo temporaneo di pesca in Adriatico riflettono alcuni fra i tanti motivi che spiegano perché questo importante strumento gestionale abbia quasi sempre funzionato male in Italia”, è quanto sostiene in una nota Sergio Ragonese, dirigente di ricerca CNR.
“A prescindere dalla scelta dei periodi e dall’obbligo di mantenere costante il fishing pattern alla ripresa delle attività, in primis, durante il fermo le unità da pesca debbono assolutamente rimanere intoccate (se non per ragioni di emergenza); bunkeraggio o manutenzione ordinaria/straordinaria non dovrebbero essere permessi”, prosegue Ragonese.
“In secundis, il fermo di pesca riguarda gli stock non le marinerie; se gli stock su cui è stato mirato il fermo sono condivisi da altre flotte che non sono tenute a rispettare il fermo, il fermo stesso perde di efficacia anche perchè le altre flotte cercheranno di aumentare lo sforzo di pesca per massimizzare gli eventuali piccoli incrementi di standing stock,”, puntualizza Ragonese evidenziando anche che: “Un fermo unilaterale varrebbe solo per gli stock più costieri e più stanziali (nel caso italiano entro le 12 miglia)”.
“Infine (per economia di spazio) gli effetti del fermo di pesca dovrebbero essere quantificati e confrontati con quelli attesi. Se non applicato correttamente, i minimi effetti positivi del fermo (incremento degli stock in mare, incremento del reclutamento successivo), ammesso che ce ne siano, non varranno il costo economico sostenuto dallo stato (in termini di contributi) o dalle imprese (in termini di perdita di quote di mercato)” afferma Ragonese che conclude: “In succo, un fermo mal fatto corrisponde a dare sussidi al settore senza alcun effetto positivo né a breve né a medio termine degli stock”.