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Home Acquacoltura

Acquaponica: una tecnica per l’innovazione sociale

Comunicato stampa by Comunicato stampa
31 Marzo 2020
in Acquacoltura, Acquaponica
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I media, i politici, i genitori, gli insegnanti, gli anziani, i giovani, non fanno che ripetere che “ci hanno rubato il futuro”. Che poi verrebbe da chiedersi chi ha la responsabilità di questo ladrocinio.
Ognuno scarica la colpa sull’altro. I partiti sull’opposizione, i genitori sugli insegnanti e questi sui politici, i giovani sugli anziani e questi ultimi ci definiscono bamboccioni, reticenti al cambiamento. Il capro espiatorio per antonomasia comunque rimane l’immigrato: “lo straniero che ci viene a fregare il lavoro”.

La cosiddetta Generazione Y  vede nell’imprenditoria sociale l’unico mezzo per portare avanti una rivoluzione culturale che non determini depressione economica e violenza. Sono molti i giovani che nell’acquaponica intravedono le potenzialità di un’innovazione sociale ad ampio spettro, perché rappresenta uno dei tanti passi verso la realizzazione di comunità autosufficienti, non solo a livello energetico, ma anche in una produzione alimentare sostenibile. È una tecnologia alla portata di tutti che contribuirà a creare quei cerchi oceanici che teorizzava il Mahatma Gandhi nella sua visione economica: “realtà costituite da comunità di individui integrate in comunità sempre più ampie, fino a comprendere l’intera umanità.”

Noi produciamo più cibo di quello che consumiamo. La fame nel mondo sussiste non perché non ci siano i mezzi o le conoscenze per dare da mangiare a tutti, ma perché la produzione di massa è indirizzata al soddisfacimento dell’ingordigia di pochi. Le nostre società ultra-avanzate devono sempre di più far fronte all’aumento esponenziale di casi clinici di obesità patologica, mentre 795 milioni di persone nel mondo muoiono di denutrizione.

La demagogia di molte politiche anti-migranti si basa sull’assunto che solo una piccola percentuale degli immigrati che solcano il mare in direzione delle coste italiane siano in fuga da una guerra. In effetti, la maggioranza dei profughi che accogliamo sono rifugiati ambientali, il che sta a significare che stanno cercando ricovero da condizioni climatiche talmente estreme da mettere a serio rischio la loro sopravvivenza.
Il depauperamento dei terreni ad opera di colture intensive di cereali per il foraggio di animali da allevamento e il conseguente disboscamento che ne deriva e che a sua volta contribuisce alla perdita di acqua preziosa per la fertilità della terra. La scarsità di pesce nei bacini idrici, dovuti all’inquinamento provocato dallo scarico abusivo di prodotti tossici da parte delle multinazionali e, nel caso del mare, della pesca estensiva a strascico protratta per troppi anni.
Queste e molte altre sono le conseguenze di una produzione di massa incontrollata che hanno comportato le impressionanti migrazioni di cui siamo testimoni.
Non c’è modo di arrestarle perché l’istinto di sopravvivenza umano supera qualsiasi muro e pericolo e ci fa sopportare anche le sofferenze più inaudite. D’altro canto noi possiamo imparare molto da queste culture fuggiasche. Ad esempio, potremmo riavvicinarci a quell’idea di “comunità” che nelle nostre quotidianità è stata sostituita dalla “community” dei social network. Potremmo riscoprire l’importanza di una produzione alimentare casalinga, invece che massificata. Potremmo finalmente aprire gli occhi sull’enormità dell’emergenza ambientale a cui bisogna far fronte già nel proprio con piccole accortezze.

Vorrei a questo proposito parlare dell’acqua e dell’urgenza di non sprecarla. Nelle nostre città l’acqua corrente arriva in tutte le cose senza nessuna restrizione, quindi molti di noi non si rendono davvero conto dell’emergenza siccità in atto. Gli stessi agricoltori, pur perdendo ampie porzioni di raccolto, non sanno decidersi a riqualificare le proprie strutture in vista di quello che sarà un completo capovolgimento climatico; anzi si scagliano contro le innovazioni in questo settore, che invece potrebbero procurar loro immediati benefici. In Italia la cultura dell’agricoltura tradizionale è estremamente radicata. È molto difficile quindi indirizzare i capitali d’investimento verso delle tecniche che stravolgono il paradigma della tipica “azienda agricola”.

Uno dei benefici principali dell’acquaponica è che garantisce il 90 % di acqua risparmiata. Questo vantaggio è molto sentito in Paesi in cui i bacini idrici non sono abbondanti o sparsi omogeneamente sul territorio come i nostri. In Italia, nonostante il problema dell’inquinamento e del prosciugamento delle falde acquifere si stia verificando, non c’è ancora la coscienza condivisa fra la popolazione dell’urgenza di sostituire i vecchi sistemi di produzione agroalimentare di massa con tecniche nuove ad inferiore impatto ambientale.
Lo stesso principio investe il consumo della carne, la cui produzione incide esageratamente in termini ambientali. Noi consumiamo troppa carne. Un sostituto più sano e decisamente molto più ecosostenibile è rappresentato dal pesce allevato in impianti di acquacoltura RAS (a ricircolo chiuso) e in acquaponica.
Gli investimenti pubblici in questo settore sono esigui, ma non perché non abbia delle enormi potenzialità, ma per l’ignoranza in materia della classe politica che dovrebbe incentivarne i progressi.

Nei Paesi del Nord Europa, in particolare, necessità ha davvero fatto virtù; infatti per produrre nonostante le condizioni climatiche avverse, sono stati realizzati dentro ex capannoni industriali riqualificati impianti di acquacoltura e acquaponica urbana all’avanguardia. Le loro stesse esperienze imprenditoriali potremmo replicarle qui in Italia, adattandole a quelli che sono i bisogni attualmente sentiti dalla gente, come un lavoro dignitoso.
Io, come molti altri insieme a me, vedo nell’acquaponica l’opportunità di un indotto tale da creare nuovi posti di lavoro e quindi una produzione economica decentrata entro comunità autosufficienti ma interdipendenti le une dalle altre.
Ora, ci sono ancora molti ostacoli da superare, come ad esempio l’abbattimento dei costi iniziali per realizzare un impianto produttivo e degli onerosi costi fissi legati al consumo elettrico e termico. È su queste questioni che è focalizzata la nostra attività di ricerca e sensibilizzazione. Sfruttare le competenze e le tecnologie esistenti per trovare delle soluzioni economiche e sostenibili che rendano concretamente l’acquaponica un’alternativa popolare e democratica, accessibile a tutti.

In Italia poi, come già detto, bisogna scontrasi continuamente contro l’ignoranza della classe politica ed il conservatorismo degli operatori del settore, oltre che alla gelosia che mostrano nei riguardi dei segreti del settore. Il futuro però è open source e nessuno potrà più barricarsi dietro conoscenze già maturate, bisognerà profondere i propri sforzi nel supporto alla ricerca e all’aggiornamento di nuove soluzioni ed intuizioni.
Probabilmente questa è una delle ragioni per cui guardo all’acquaponica come ad una delle professioni del futuro, che permetterà un continuo progresso nello studio e nell’innovazione, senza troppo allontanarsi dal contatto con il ciclo vitale, in cui ogni componente vivente, anche quello più minuscolo – il batterio – contribuisce con il proprio esistere alla sinergia di un equilibrio fragilissimo. Quale miglior mezzo allora per insegnare e mostrare alle nuove generazioni quanto basti poco per sbilanciare un ecosistema vivente! Quanto certe pratiche siano fondamentali per la preservazione di un mondo in cui interagiscono tanti organismi così diversi e peculiari!
La mia idea di impresa si basa su questi presupposti.
Per me l’acquaponica è un’opportunità inestimabile per ridare dignità al lavoro, superando al contempo la dicotomia lavoro/salute e ambiente. La mia rivoluzione silente parte da qui; e la vostra?

Giulia Di Crescenzo

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