Numerosi studi hanno hanno rivelato come il pesce in quanto alimento alimento abbia giocato un ruolo fondamentale nell’evoluzione dell’umanità determinando lo sviluppo della massa cerebrale quale quella oggi in dotazione all’uomo moderno. Fra le diverse ricerche una in particolare pubblicata sul British Journal of Nutrition e condotta da tre Università (Beltsville-Toronto-London) rispettivamente da Broadhurst, Cunnane e Crawford, ha accertato che l’introduzione di alimenti di origine marina ricchi di OMEGA-3 nella dieta degli ominidi permise di evitare quella carenza di DHA, acido grasso docosaesaenoico omega-3, associata alla perdita di volume cerebrale che è risultata invece limitante per lo sviluppo delle grandi scimmie e i grandi mammiferi che si sono limitati ad una alimentazione terrestre. Il motivo principale per cui questi acidi grassi OMEGA-3 Lcp rappresentano una nutrizione specifica per il cervello è dovuto al fatto che il tessuto nervoso dei mammiferi è costituito prevalentemente dai lipidi (60% del peso del cervello a secco) e che gli acidi grassi essenziali della serie Omega-6 Lcp e OMEGA-3 Lcp devono essere introdotti con l’alimentazione, in quanto non possono essere sintetizzati dal sistema nervoso centrale.
Nel corso dei millenni la pesca ha giocato un ruolo fondamentale nella vita dell’uomo, infatti questa insieme alla caccia è stata la prima risorsa alimentare per ominidi prima e uomini poi per tutto il paleolitico. I fiumi e i mari offrivano molte risorse per il sostentamento di intere popolazioni; si catturavano con gran facilità pesci ti ogni tipo grazie alla disponibilità elevata.
La pesca, nel suo significato più profondo, è una lotta fra uomo e pesce, fra l’intelligenza e l’istinto di conservazione. È da sempre stata un esercizio di osservazione, studio, pazienza, iniziativa e tecnica in quanto è risaputo che il pesce è per sua natura molto cauto e prudente nei movimenti. In questa eterna lotta per l’esistenza l’uomo ha dovuto affinare e creare sempre nuovi metodi per garantirsi il sostentamento; da principio la tecnica più comune e praticabile fu quella di sfruttare la possibilità di catturare i pesci che per il ritiro della marea o la riduzione del flusso dei corsi d’acqua si fossero trovati naturalmente imprigionati in pozze naturali. Si imparò poi a costruire sbarramenti di legno all’interno dei quali pescare con le lance o anche a mani nude. Con l’aumento della popolazione e dunque con la necessità di garantire una maggiore quantità di cibo, si iniziò a costruire le nasse, vere e proprie trappole che catturavano il pesce che vi si introduceva attirato da esche appropriate; nel frattempo, si inventarono anche ami, lance e arpioni perfezionati per essere usati come strumenti idonei alla pesca. Testimonianze archeologiche indicano come gli Egiziani abbiano sfruttato il patrimonio ittico del Nilo fin dalla preistoria: sono state ritrovate incisioni che registrano i tipi di pesci catturati, le tecniche di pesca, i metodi di preparazione e il commercio del pescato. Gli egiziani usavano lance, ami, sbarramenti e reti per catturare i pesci in natura, al contrario degli abitanti della Mesopotamia che addirittura costruivano stagni, nella mezzaluna fertile dei fiumi Tigri ed Eufrate, per garantirsi forniture regolari e accessibili di pesci.
A partire del I secolo d.C. Roma, divenuta una metropoli, richiese l’afflusso di enormi quantità di merci per il sostentamento della popolazione urbana; in questo contesto la sola pesca non riuscì più a far fronte alla domanda di prodotto fresco: si dovette dunque trovare una soluzione economica ma allo stesso tempo produttiva, fu in questo periodo che si incominciarono a sperimentare e sviluppare le tecniche dell’acquacoltura.
Durante il Medioevo, a partire dal XII secolo, la pesca alle aringhe, praticata principalmente nel Mar Baltico, conferì prosperità alla Lega Anseatica; è curioso registrare che già in quest’epoca lo sfruttamento molto spinto di questi areali causò dei contrasti sui diritti di pesca ed i conseguenti profitti, che si risolsero in veri e propri conflitti, a volte sfociati in guerre, tra le nazioni europee. Nel XIV secolo, gli europei spinsero le proprie navi in territori allora ancora quasi inesplorati per pescare il merluzzo al largo dell’Islanda, utilizzando una tecnica particolare di conservazione del pesce che raggiungeva i mercati europei essiccato o salato.
Durante gli anni ’50 fino ad arrivare agli anni ’70 del secolo scorso, la rapida espansione delle flotte e lo sviluppo tecnologico ha portato a un considerevole aumento della produzione mondiale della pesca, intorno a 2 milioni di tonnellate per anno, passando dunque da 20 milioni a 60 milioni di tonnellate di pesce pescato. Dagli anni ’90 ad oggi, nella maggior parte del mondo, la produzione della pesca si è stabilizzata a 90 milioni di tonnellate/anno tranne che in Cina, dove la produzione è ancora in costante aumento.
Quali sono oggi le tecniche di pesca più comuni?
Le tecniche di pesca sono adattate allo stile di vita degli organismi: le specie bentoniche vivono sul fondo e dunque sono legate alla natura del substrato (sogliola, platessa, rombo, rana pescatrice, crostacei, molluschi), le specie demersali vivono vicino al fondo ma non ne dipendono (merluzzo) e infine le specie pelagiche vivono in acque aperte (sardine, acciughe, sgombri, tonno).
Le principali tecniche di pesca possono essere classificate in 2 categorie: tecniche dormienti e tecniche di trascinamento.
Le tecniche dormienti prendono il nome dal fatto che gli strumenti di cattura rimangono statici. Queste sono rispettose dell’ambiente, sono selettive, e dunque permettono di pescare animali di determinate taglie senza nuocere al resto della fauna marina: il risultato è la pesca di pesce di ottima qualità.
Al contrario le tecniche di trascinamento, che prendono il nome dagli attrezzi da pesca che vengono trainati o trascinati dietro una barca, in genere sono poco selettive e danneggiano il fondo e l’habitat marino.
Quest’ultimo tipo di pesca ha degli effetti diretti come il deterioramento dell’habitat, un sovrasfruttamento di specie mirate e il danneggiamento delle specie non-mirate che non sono di interesse commerciale, per tipologia o taglia, che vengono rigettate in mare ormai prive di vita. Inoltre questi strumenti di pesca incagliati sul fondale sono inquinanti per i nostri mari.
Cosa ci aspettiamo nel futuro?
L’aumento esponenziale della popolazione nei paesi in via di sviluppo che si realizzerà nei prossimi decenni pone il problema della disponibilità di proteine nobili; è quindi necessario che mentre gli scienziati ricercano soluzioni nei confronti dei problemi relativi al cambiamento climatico, alla siccità e alla carenza idrica, orientino i loro studi anche alla ricerca di uno sviluppo sostenibile dello sfruttamento produttivo degli oceani ed al loro enorme potenziale nutrizionale.
La quantità di pesce catturato sta diminuendo, ma ci sono anche limiti a quanto la pesca sostenibile può fornire; quindi, se vogliamo preservare gli ecosistemi marini e le specie, dobbiamo applicare soluzioni alternative. Il mondo scientifico vede nell’acquacoltura il potenziale per soddisfare la crescente domanda di proteine da parte dei consumatori sempre più consapevoli delle proprie scelte di acquisto, riducendo al contempo nel breve termine le attività di pesca selvaggia, permettendo alla biomassa ittica di recuperare il proprio equilibrio e mantenendo un controllo partecipato a livello mondiale e condiviso da parte di tutte le politiche.