Il nostro paese, in ragione di chiare scelte politiche, è entrato recentemente in un percorso di sviluppo – a nostro parere virtuoso e lungimirante, quantomeno nelle intenzioni – che mira al perseguimento degli obiettivi di sviluppo sostenibile (Sustainable Development Goals, SDGs) identificati dall’Agenda 2030 dell’ONU. Tale scelta si allinea alla scelta della Comunità Europea che ha identificato il Green Deal tra le 6 priorità della Commissione per il 2019-2024. Queste scelte hanno attivato e moltiplicato tavoli locali, regionali e nazionali nei quali, direttamente o indirettamente, si ragiona di sostenibilità, nelle sue più svariate declinazioni culturali, ambientali, sociali ed economiche.
I 17 obiettivi di sviluppo sostenibile dell’ONU (https://unric.org/it/agenda-2030/) sono obiettivi di lunga gittata temporale con implicazioni sociali, politiche, culturali, etiche ed economiche che mirano al raggiungimento di 169 ‘target’ o traguardi specifici da raggiungere entro il 2030.
Tra questi traguardi alcuni meritano a nostro parere attenzione anche per orientare i lettori nel dibattito/diatriba a distanza tra il Prof. Roberto Danovaro e chi, a più riprese, ha contestato l’attendibilità scientifica del suo monito propositivo proposto sul Corriere Adriatico lo scorso 13 febbraio 2020 e ha strenuamente difeso la sostenibilità della pesca delle vongole con le draghe idrauliche, invocando la necessità (e forse la contingente ineluttabilità sociale) di accettare un “impatto sostenibile”.
L’obiettivo 12.2 invita a “raggiungere la gestione sostenibile e l’utilizzo efficiente delle risorse naturali”. Cosa vuol dire gestione sostenibile delle risorse? Vuol dire adottare buone pratiche affinché una risorsa rinnovabile (cioè un qualsiasi organismo vivente) mantenga la sua capacità di rinnovarsi rendendosi pertanto disponibile in futuro nelle quantità che ne soddisfino la domanda senza precluderne l’esistenza. Esiste, tuttavia, una non trascurabile differenza tra sostenibilità del prelievo (volta a mantenere, nel lungo periodo, sfruttabile quella risorsa) e la sostenibilità ecologica delle pratiche attraverso le quali lo sfruttamento viene effettuato. A questo proposito è necessario richiamare l’obiettivo 14.2 che invita a gestire in modo sostenibile e proteggere l’ecosistema marino e costiero per evitare impatti particolarmente negativi, anche rafforzando la loro resilienza, e agire per il loro ripristino in modo da ottenere oceani salubri e produttivi, a tutto vantaggio della società grazie ai molteplici servizi che gli ecosistemi forniscono all’uomo. Dell’importanza di questi ultimi ci accorgiamo spesso quando li perdiamo, quando è troppo tardi.
Fatte queste debite premesse e distinzioni tra sostenibilità del prelievo e sostenibilità ecologica del metodo di prelievo delle risorse, riteniamo necessario in qualità di ricercatori, ma anche di cittadini responsabili di questo pianeta fare alcune osservazioni.
Nel suo primo intervento pubblicato sul Corriere Adriatico, il Prof. Danovaro ha delineato le problematiche ecologiche della pesca con le draghe idrauliche, lanciando un monito sui severi (scientificamente documentati) rischi ambientali di questa pratica di pesca ed invitando gli organi di governance a trovare strade di introito economico proveniente dalle risorse marine, diverse dalle draghe idrauliche ed ecocompatibili.
Il termine “smantellare” ha evidentemente allarmato il settore che ha – in prima battuta – reagito al monito del Prof. Danovaro etichettando i presupposti presentati dallo stesso come erronei ed infondati scientificamente, salvo rivedere le proprie posizioni al riguardo nel loro secondo intervento, nel quale si ammette che l’impatto esiste ma anche che le valutazioni effettuate dal CNR, oltre che da varie Università, “hanno sostenuto che la pesca delle draghe idrauliche è sostenibile per gli stock bersaglio e per l’ambiente che da decenni subisce l’impatto di questo attrezzo senza esserne compromesso”.
La reazione degli operatori del settore può essere comprensibile, nel senso che il timore di un cambiamento così importante può, nel breve termine, determinare una reazione di difesa del tutto naturale. Tuttavia, i presupposti logici e scientifici legati alla necessità di un cambiamento, che va ovviamente accompagnato da misure che evitino effetti negativi dal punto di vista socio-economico, restano integralmente validi.
Quindi, che le draghe idrauliche abbiano un impatto è cosa – infine – riconosciuta anche dagli stessi “oppositori” del Prof. Danovaro. Esiste infatti un’ampia letteratura internazionale (prodotta anche da CNR ed Università, altrimenti indicati come certificatori del contrario da parte dell’Alleanza delle Cooperative Italiane del Settore Pesca) che ha messo alla luce i rischi e le conseguenze di questa pratica, non solo in Adriatico[1]. La disponibilità e consapevolezza di tali certezze scientifiche mette in evidenza il valore innegabile delle dichiarazioni del Prof. Danovaro. Di contro ci sovviene chiedere che se altri studi esistono, ebbene, che questi siano citati e che chi li ha condotti si palesi su queste pagine o sulla letteratura scientifica internazionalmente riconosciuta a difesa di quanto sostenuto dalla Cooperativa.
La “valutazione e lo studio” sono passi fondamentali, dal punto di vista scientifico, per avere capacità di discernimento tra ipotesi e opinioni talvolta contrastanti. Con rammarico prendiamo atto che l’Alleanza ha declinato l’invito del Prof. Danovaro a valutare l’impatto ecologico delle draghe idrauliche. Attendiamo (onestamente con curiosità scientifica che va aldilà della diatriba) di conoscere metodi e risultati degli studi di sostenibilità dell’uso delle draghe idrauliche riferiti dall’Alleanza. Avremmo dunque piacere di vedere delineate in queste pagine anche quali siano le già esistenti “politiche idonee a garantire la sostenibilità della pesca” non tanto in termini di sostenibilità del prelievo, quanto in termini di sostenibilità ecologica del metodo utilizzato. E su questo siamo eventualmente pronti anche noi a confrontarci per lettera e sul campo.
In termini di risultati riconosciuti dalla comunità scientifica internazionale (ovvero pubblicati su riviste scientifiche soggette a peer review), ci permettiamo di fornire di seguito alcune – tra le possibili – chiavi di lettura della severità degli impatti della pesca con le draghe idrauliche.
Una di queste ci viene dalla relazione tra impatto della pesca (in termini di frazione di biomassa animale rimossa dal fondo) e profondità di penetrazione di diversi tipi di attrezzi, pubblicata sulla prestigiosa rivista Proceedings of the National Academy of Science of the United States[2]: ebbene, l’impatto sulla fauna dovuto all’uso delle draghe idrauliche è almeno doppio di quello provocato delle tecniche di pesca a strascico, già di per sé impattanti a livello ecosistemico se condotte indiscriminatamente. Dato che è noto che qualsiasi forma di disturbo non è funzione solo dell’evento puntiforme, ma anche della frequenza con la quale questo si verifica, considerata la frequenza e distribuzione spaziale della pesca con le draghe idrauliche possiamo prevedere che gli effetti sistemici siano notevoli. E questo vale in maniera particolare per il Mare Adriatico, l’area al mondo con la maggior frequenza di disturbo del fondale operato dalla pesca commerciale[3].
L’imponente disturbo meccanico delle draghe idrauliche sul fondale marino ha certamente effetti sulle attività microbiche che controllano i meccanismi di sequestro e rilascio di nutrienti: uno studio[4] effettuato sull’impatto di tecniche di pesca (a strascico) molto meno “impattanti” delle draghe idrauliche ha dimostrato recentemente che tale disturbo è in grado di compromettere la capacità dei microbi nel sedimento di rimuovere i nutrienti in eccesso nelle acque costiere, potenzialmente aumentandone gli effetti negativi, vale a dire compromettendo (quantomeno alterando) un fondamentale servizio ecosistemico.
Ad onor del vero, non abbiamo dubbi di ritenere che i calcoli e le stime sulla sostenibilità degli stock delle vongole siano fedeli e rigorosi, così da poter considerare il prelievo di questa risorsa “biologicamente” sostenibile, così come siamo convinti della generale attitudine degli operatori del settore a rispettare i limiti imposti dalla legge.
Tuttavia, bisognerà convenire che valutare la consistenza della risorsa e la sua persistenza nel lungo termine non equivale necessariamente a valutare se il metodo di pesca utilizzato è sostenibile in termini ecologici, ecosistemici. Nel caso delle draghe idrauliche questo è stato dimostrato – a più riprese e non solo in Adriatico come accennato sopra – essere ecologicamente compromettente. La “controparte” del Prof. Danovaro sostiene, a loro detta su basi scientifiche, il contrario.
Ebbene, davanti a tale idiosincrasia di certezze scientifiche, esiste una sola soluzione: il mondo delle Cooperative dovrebbe rendere pubblici e trasparenti i risultati delle attività di valutazione dell’impatto da loro o per vece loro svolte al fine di dimostrare la sostenibilità ecologica di questa pratica di pesca, ovvero, come loro stessi richiamano, per dimostrare che le draghe idrauliche hanno un “impatto sostenibile”. La controparte della ricerca scientifica dovrà essere pronta a valutare oggettivamente questi risultati e confutare o confermare le posizioni degli uni e degli altri.
Rendere pubblici ed intellegibili i risultati degli studi sull’impatto ecologico delle draghe idrauliche ed, eventualmente, promuoverne di nuovi per dipanare eventuali incertezze di valutazione, è dunque a nostro parere necessario ed urgente, perché, come invoca un altro dei 169 target dell’Agenda 2030 è fondamentale incoraggiare le imprese, in particolare le grandi aziende multinazionali, ad adottare pratiche sostenibili e ad integrare le informazioni sulla sostenibilità nei loro resoconti annuali (obiettivo 12.6).
Fatti questi richiami agli obiettivi di sviluppo sostenibile, ci permettiamo, infine, di concludere richiamando la necessità contingente di dover abbandonare la logica desueta del business as usual, ovvero della logica di “rincorrere” accorgimenti tecnico-operativi per garantire la sostenibilità del prelievo di una risorsa che non prestino attenzione alla salvaguardia degli ambienti dove quella risorsa risiede.
È tempo non più (o quantomeno non solo) di pensare alla salvaguardia del proprio interesse economico, ma è urgente avere il coraggio di cambiare – anche radicalmente – le prassi ecologicamente insostenibili di sfruttamento delle risorse e di realizzare i principi della sostenibilità ambientale adottando nuove soluzioni ecocompatibili ed operando concretamente per recuperare struttura e funzioni di quegli ecosistemi la cui capacità di produzione di servizi è stata già severamente compromessa.
Prof. Antonio Pusceddu, Professore Ordinario di Ecologia presso l’Università degli Studi di Cagliari
Prof. Paolo Guidetti, Full Professor of Ecology at the University Côte d’Azur (UCA, Nice, France)
[1] Ad esempio: Vasapollo et al. (2020) Impact on Macro-Benthic Communities of Hydraulic Dredging for Razor Clam Ensis minor in the Tyrrhenian Sea. Frontiers in Marine Science 7: article 14; https://www.frontiersin.org/articles/10.3389/fmars.2020.00014/full
[2] Hiddink et al. (2017) Global analysis of depletion and recovery of seabed biota after bottom trawling disturbance. PNAS 114 (31) 8301-8306; https://www.pnas.org/content/114/31/8301
[3] Amoroso et al. (2018) Bottom trawl fishing footprints on the world’s continental shelves. PNAS 115 (43): 10275-10282; https://www.pnas.org/content/115/43/E10275
[4] Ferguson et al. (2020) Bottom trawling reduces benthic denitrification and has the potential to influence the global nitrogen cycle. Limnology and Oceanography Letters doi: 10.1002/lol2.10150; https://aslopubs.onlinelibrary.wiley.com/doi/10.1002/lol2.10150