Viviamo i giorni del Coronavirus, e l’allarme sociale che ne scaturisce. Eppure tra i media echeggiano ancora gli slogan dei no-vax ed i dati presentati dai pro-vax. A uomini e donne “di scienza” viene riconosciuto il pregio di voler far parlare i numeri, i numeri raccolti con rigore, validati e sottoposti al vaglio della comunità scientifica. Uomini e donne che conoscono molto bene il valore dell’informazione scientifica, ossia il valore dei dati scientifici che vengono raccolti nei laboratori di ricerca o in campo per anni. Dati raccolti con il metodo scientifico che vengono pubblicati su riviste specializzate dopo essere stati lungamente giudicati secondo un metodo detto di peer-reviewing. Un metodo accettato in tutto il mondo ed usato da oltre cento anni per verificare e selezionare l’informazione in funzione della qualità, innovazione ed originalità. E tanto più i dati vengono pubblicati su riviste rigorose e riconosciute per la loro qualità, tanto più è possibile considerare di qualità la ricerca che li ha generati. Un sistema che può certamente essere perfettibile, e per comprenderne meglio la filosofia basti pensare alla possibilità di dubitare di un editoriale scritto su un bollettino locale o su una pagina FB non verificata o di un editoriale pubblicato sul New York Times. Avreste dubbi?
L’informazione scientifica che dovrebbe essere trasferita a tutti i segmenti della società è quella stessa informazione che per anni viene creata dai ricercatori nei laboratori per diventare prodotto applicabile ed alimentare i protocolli e le misure gestionali. Questo vale, senza alcuna sostanziale differenza, tanto per i medici quanto per gli ingegneri, i biologi e gli ecologi. Per esempio, molta dell’informazione scientifica raccolta da biologi ed ecologi marini alimenta la conservazione della biodiversità, la gestione delle risorse marine pescabili e di quelle che vengono allevate (acquacoltura). L’obiettivo ultimo è capire come evitare conflitti salvaguardando sia il funzionamento degli ecosistemi che la dimensione umana dipendente dai beni e servizi ad essi associati.
A questo riguardo, da qualche decennio, ormai anche in Italia, il rigore necessario per la creazione dell’evidenza scientifica è l’obiettivo primo della vita di schiere di giovani laureati, dottorandi, dottori di ricerca, post-doc, ricercatori e docenti universitari. Nonostante ciò, ancora oggi nel nostro paese, vi è una forte contrapposizione tra chi produce dati con rigore scientifico – frutto dei sacrifici dei nostri laboratori – e coloro i quali poi li utilizzeranno per definire i protocolli di gestione e conservazione.
Credo che gran parte della responsabilità di questa contrapposizione derivi dall’incapacità di alcuni scienziati, me in primis, di informare con il linguaggio più appropriato tutti gli strati della società, inclusi i cosiddetti portatori di interesse (stakeholder) ed i decisori politici. Così l’evidenza scientifica prodotta è spesso assente o trascurata sui tavoli dei decisori, anche perché in alcuni casi – forse nella maggior parte dei casi – l’evidenza scientifica conduce a riflettere su quanto l’azione dell’uomo sia pervasiva sugli ecosistemi. Questo aspetto è importante poiché, riconoscere che l’azione dell’uomo è spesso una minaccia per gli equilibri degli ecosistemi e che non è più possibile considerarla sostenibile (alla luce dell’attuale conoscenza scientifica), pone problemi di interpretazione ai rappresentanti di categoria ed ai decisori. Essi devono tenere in giusto conto la dimensione umana che rappresentano nonché risolvere i conflitti sociali che derivano dalla loro limitata capacità di mettere in campo misure adeguate per evitare la perdita di economia locale. Così spesso gli scienziati vengono visti come portatori di sventura, di contraddizioni e sono trattati come generatori di contrapposizione. Questa forte contrapposizione – tra gli attuali scienziati che si occupano di mare e le categorie che curano gli interessi di chi lavora a mare, i pescatori, gli acquacoltori e via dicendo, è oggi evidente e voglio portare qui un paio di esempi.
Uno tra i più famosi riguarda la gestione delle quote tonno. Dopo la riduzione dello stock mediterraneo messo in evidenza agli inizi degli anni 2000, qualche anno dopo la comunità scientifica internazionale, nelle vesti dell’ICCAT (International Commission for the Conservation of Atlantic Tunas), ha deciso di indirizzare il processo di prelievo attraverso l’uso di un approccio di gestione che prevede la pesca per quote divisa per paese rivierasco e tale approccio è stato ritenuto a quel tempo il migliore. Senza entrare nel merito tecnico se quella fosse stata la migliore soluzione e se sia oggi migliorabile, la gestione della pesca del tonno in Italia genera forte contrapposizione sociale e forte disagio nelle comunità costiere. Per esempio, se da un lato i pescatori lamentano che le restrizioni sono basate su informazioni obsolete e non realistiche delle attuali condizioni degli stock, poiché loro quando in primavera o estate vanno a pescare hanno una evidenza diretta del fatto che vi sono “tanti tonni”, dall’altro i decisori applicano in modo invariato nel tempo regole che non vengono “adattate” e contestualizzate di anno in anno sulla base del dato scientifico acquisito. La gestione ecosistemica ed adattativa implica una gestione che va adattata, anno dopo anno, alle condizioni mutevoli degli ecosistemi, alla dimensione dello stock, alle caratteristiche medie degli organismi target di pesca come dimensioni, stato di maturità e via dicendo e al contempo a fattori della dimensione umana (es. caratteristiche delle comunità costiere, della flotta impiegata, numero di licenze attive, operatori a bordo etc.). Se non si ci adatta momento dopo momento a tutti fattori, la gestione statica e decontestualizzata genera un forte scollamento (detto in gergo scientifico mismatch) tra chi decide, chi raccoglie dati e li trasferisce e chi si basa su queste risorse per mandare a scuola i propri figli.
Questo caso evidenzia una forte “discrasia” nel funzionamento della macchina sociale, ossia evidenzia come l’informazione scientifica che è spesso prodotta in modo tempestivo e contestualizzata alle situazioni contingenti locali, non è accettata o non compresa da alcuni portatori di interesse e decisori. Il risultato è che un pescatore o chi gestisce una tonnara si ritrova a gestire la propria azione di prelievo e di investimento sulla base di dati di anni prima, non contestualizzati alla situazione reale attuale, che cambia sempre più velocemente.
Siamo infatti a mare… il mare è un sistema dinamico, un sistema con caratteristiche che cambiano nello spazio e nel tempo, che riceve le sollecitazioni ambientali (es. la temperatura che cambia) e le registra attraverso tutte le sue componenti ecosistemiche. Un sistema ove – nella visione ecologica del 2020 – non è possibile pensare al tonno o alle vongole come se fossero le uniche e sole componenti in mare. E questo in effetti si contrappone ad una visione biologica sviluppata alcuni decenni fa sulla quale però ancora si disegna la gestione delle risorse marine focalizzata su una sola specie target alla volta e non vede queste specie come gli elementi di un ecosistema che interagiscono con altre componenti non viventi e con le altre specie, uomo incluso. Quindi sembra che la scienza proponga due visioni diverse, una biologica ed una ecosistemica e nel farlo contraddica sé stessa. Ma nella realtà stiamo assistendo allo stridere di due differenti approcci che derivano dalle difficoltà di leggere ed interpretare un cambiamento che è troppo veloce e con esso gli effetti generati dalla azione umana. Per far fronte a questo cambiamento, gli scienziati vecchi e nuovi dovrebbero “sincronizzare” le proprie visioni e basarle sui dati raccolti con rigore da tutte le componenti del sistema – e non più riferirsi ad una sola specie target che alimenta un comparto target – e dalla dimensione umana che è inclusa (l’uomo fa parte del sistema). Chi non si adegua al cambiamento ed al nuovo modo di vedere le cose frutto di una evoluzione scientifico- culturale, resterà indietro!
Per questo quando nei giorni scorsi ho letto un comunicato stampa di associazioni di categoria che tuonavano contro un noto scienziato, Roberto Danovaro, sono rimasto sbigottito. Mi sono chiesto cosa avesse detto il Prof. Danovaro per suscitare tanta reazione in quell’articolo oggetto di diatriba pubblicato su un giornale locale alcuni giorni prima. Diceva, con semplicità e rigore, che la pesca con le turbo-soffianti in Adriatico genera impatto significativo non solo sulle vongole stesse ma anche e soprattutto sulle altre componenti ecosistemiche da cui esse dipendono. La risorsa “vongola” ad oggi è stata gestita come la unica componente del sistema, errore da cui Danovaro mette in guardia nel suo articolo invitando ad una riflessione sui danni economici causati da questa stessa attività su altre attività umane e relativi strati dell’economia locale. In effetti, alla base del ragionamento di Danovaro, oltre alla visione ecosistemica, c’è il concetto di scala: temporale e spaziale. Nel nostro paese si è abituati a ragionare su scale temporali brevi, solo di qualche anno, e la massimizzazione dei profitti è cercata su questo livello di scala. Ma quando si ha a che fare con un ecosistema complesso come è il mare con le sue risorse, che risponde allo sfruttamento su scale temporali differenti a quelle delle necessità sociali italiane, lì nasce un problema. Nasce la contrapposizione tra chi mette in guardia – dati alla mano – dallo sfruttamento costante e pervasivo delle risorse e propone altre possibili soluzioni adattative (es. molluschicoltura) e chi pensa in modo quasi binario, ossia pensa solo alla risorsa ed al comparto che vi dipende. Se poi volessimo riflettere sulla scala spaziale in mare, data la continuità del fluido di cui è costituito ed il suo continuo moto, realizzeremmo tutti con grande semplicità che in un sistema dinamico come quello marino, la mia azione oggi qui avrà effetti domani lì!
Da tirrenico io non ho la percezione di cosa significhi il mare torbido, ma quanto descritto da Danovaro mi ha fatto riflettere sulla gravità di quello che potrà succedere nel prossimo decennio se non si razionalizzerà ancora di più il prelievo e non si integreranno le attività tradizionali esistenti con altre soluzioni produttive. Non è compito degli scienziati immaginare soluzioni socialmente ed economicamente sostenibili per ovviare agli effetti negativi dell’azione dell’uomo sull’ecosistema marino quando sottoposto ad azioni di prelievo, ma è certamente loro compito proporre nuovi modi per interpretare il cambiamento e leggere l’azione dell’uomo sugli ecosistemi. È certamente loro compito ricordare che i dati scientifici contano, sollevando i problemi ambientali ed inquadrandoli all’interno di una visione ecologica, anche se questo non fosse conveniente per alcune componenti della società.
Ecco quindi che mi ha fatto riflettere il tentativo di chi volendo difendere una categoria sociale – certamente meritevole di supporto e soluzioni – ha preferito farlo negando l’evidenza scientifica, sminuendo chi crede nella conoscenza scientifica e nella possibilità di integrarla nelle scelte di conservazione e gestione, scoraggiando a priori il dialogo e l’elaborazione di soluzioni innovative e sostenibili. Basarsi su dati obsoleti, frutto di approcci non più riconosciuti dalla comunità scientifica e non più innovativi, su sistemi di controllo non sempre verificati e attuabili nei nostri mari, fa male a tutti, presto o tardi. Questo è secondo me il fatto più grave ossia il non rispetto esercitato da chi dovrebbe sedere allo stesso tavolo e ragionare su come garantire la sostenibilità economica delle attività di prelievo delle risorse marine attingendo alla scienza come fonte di conoscenza, di avanzamento ed innovazione e non come fonte di contrapposizione.
Io ringrazio di vivere in un paese in cui si dà la possibilità a tutti di esprimere il proprio parere e grazie a questo anche io posso proporre qui le mie riflessioni ad alta voce. Posso riflettere su quante incongruenze – tutte italiane – esistano ancora quando si pensa all’ambiente come un grande bacino da cui prelevare e quanto difficile sia far attecchire la visione sostenibile delle risorse inquadrata all’interno di una visione ecosistemica ed adattativa. E quindi anche in questo caso, forse banalmente sulla falsa riga di altri mille articoli scritti in tutto il mondo, la cosa più semplice per concludere questo articolo è dicendo qui che alla fine non c’è un pianeta B – e neanche i moscioli B… – e che sarebbe bello se gli scienziati – tanti – avessero più possibilità di poter parlare dei loro dati.
Prof. Gianluca Sarà – Ordinario di Ecologia Laboratorio di Ecologia – Università di Palermo