Nel 1703 Cornelius Van Bynkershoek sosteneva che “il dominio terrestre delle acque ha termine ove finisce la forza delle armi”. La tesi del giurista neozelandese rappresentò allora uno dei primi contributi in materia di Diritto Internazionale applicato alla navigazione, e nella fattispecie alle acque territoriali. Sostanzialmente, nel XVIII secolo, il limite marino entro cui uno Stato poteva esercitare il proprio dominio aveva come unità di misura la gittata massima di un cannone, che in quel periodo corrispondeva a 3 miglia marine. Sembra che a distanza di poco più di trecento anni, il paradigma sia mutato non tanto sul piano del significante, quanto su quello del significato. Siamo nel settembre 2010 e gli elementi principali citati da Bynkershoek rimangono pressoché inalterati: da un lato le acque territoriali, dall’altro le armi. Accade che a largo delle coste libiche una motovedetta apra il fuoco mitragliando il motopeschereccio Ariete, battente bandiera italiana. A margine delle numerose pagine di cronaca e delle questioni correlate che vi scaturirono (a bordo dell’imbarcazione libica erano presenti anche sei militari italiani), il caso di cui sopra apre uno spiraglio di non dubbia importanza sulla lunga e annosa problematica delle acque territoriali e dei loro limiti. I sequestri di pescherecci non sono nuovi alle pagine di giornale, basti pensare che dall’inizio del 2015 il bilancio di quelli requisiti solo in Italia ammonta ben a tre. Ma procediamo con ordine, tentando di comprendere il motivo del ripetersi di fatti del genere.
A disciplinare l’estensione territoriale delle acque vige attualmente la Convenzione di Montego Bay, la quale stabilisce come ampiezza generica giurisdizionale di ogni nazione aderente le 12 miglia marine. Parlando di spazi marittimi, nel saggio “Il Mediterraneo. Geografia della frattura” Bernard Kayser scrive così : “Le convenzioni internazionali in questo campo sono siffatte che, applicate al Mediterraneo, mare stretto, compartimentato e quasi chiuso, diventano fonte di conflitti pressoché insolubili”. La fissazione di limiti comporta il generarsi di contenziosi. Alcuni dei paesi rivieraschi hanno imposto variazioni al confine di 12 miglia marine, ampliandolo o riducendolo. Si pensi alla Siria il cui limite è di 35 miglia, oppure alla Grecia ed alla Turchia che estendono il loro dominio sino a 6 miglia dalla costa. Il caso più eclatante è sicuramente quello delineato dalla Libia, che ha unilateralmente allungato le proprie frontiere marine fino a 74 miglia. Ciò, come è noto, comporta svariate conseguenze di natura giuridica e diplomatica (si faccia riferimento, ad esempio alla disputa Slovenia-Croazia). Dati alla mano, volendo prendere in analisi l’aspetto economico della questione, emergerebbe che esistono casi in cui i limiti delle acque territoriali comportano anche controversie in termini economici. Negli ultimi giorni il presidente del Distretto produttivo della pesca Cosvap di Mazara del Vallo, Giovanni Tumbiolo, è intervenuto in merito alle condizioni di degrado vissute dai pescatori siciliani privati di buona parte delle zone più floride per la cattura del pesce, oramai appannaggio unico della Libia.
In ultima analisi, la collaborazione tra gli stati potrebbe configurarsi come l’unica soluzione congeniale per una pacifica convivenza che rispetti i diritti marittimi di ciascun paese. Certo è che ci trasgredisce debba essere punito, ma trasgredire potrebbe voler significare non solo andare contro a norme già fissate, ma anche tutelare estremamente il proprio spazio vitale.
Redazione