La cronica, persistente e apparentemente irreversibile criticità della pesca marittima italiana che nel nuovo secolo ha visto crollare le catture e la flotta, ha dato impulso ad un ragionamento (Aristotele lo avrebbe assimilato ai suoi celebri sillogismi) che già serpeggiava fra i portatori di interesse (oggi diciamo stakeholder) quando, giovane ricercatore presso il neonato CNR di Mazara del Vallo, chi scrive frequentava i mercati ittici e le varie occasioni di incontri sulla pesca.
A metà degli anni ottanta del secolo scorso, con l’inizio della crisi della pesca marittima (ma con i porti italiani ancora pieni di pescherecci e di pescato), il suggerimento più gettonata (oggi diremmo “l’uovo di Colombo”) per superare le difficoltà del settore consisteva nell’invocare l’ampiamento del ventaglio delle specie allevate (“diversificazione”; cfr. il progetto https://www.diversifyfish.eu/): In sintesi, l’idea è quella di produrre la quantità necessaria di molluschi, pesci e crostacei in grandi allevamenti a terra o in mare in modo da proteggere (e magari ripopolare) gli stock selvatici, abbassare i costi di produzione (e i prezzi al consumo per le specie più pregiate) e garantire un flusso più costante di prodotto.
In altri termini, si poneva il dilemma se cercare di salvare la pesca dei selvatici o puntare decisamente all’allevamento (per i colleghi anglosassoni, capture fisheries vs aquaculture / mariculture).
Ricordo che i miei interlocutori ci rimanevano molto male quando cercavo di spiegare che allevare spigole (branzini) e orate era un conto ma allevare, dall’uovo all’esemplare di pezzatura commerciabile, specie come polpi maiolini, aragoste, gamberoni rossi, scampi, dentici, cernie e molte altre specie presentava notevoli (talvolta insormontabili) difficoltà e elevati rischi imprenditoriali (per esempio, spuntare un prezzo di vendita più basso di quello dei corrispondenti selvatici) date le limitate conoscenze scientifiche e tecnologie disponibili all’epoca.
Come esempio più eclatante, facevo gentilmente notare che i gamberoni rossi mazaresi (Figura 1) vivevano a centinaia di metri di profondità, in acque fredde e semibuie, con una pressione idrostatica di gran lunga superiore a quella atmosferica, muovendosi come matti a caccia delle loro prede preferite (altri gamberi) e liberando nel mare aperto le uova fecondate per iniziare una nuova generazione (le reclute) che avrebbe impiegato almeno due – tre anni per diventare “gamberoni” di seconda scelta e molti più anni per raggiungere la costosa prima categoria. Analoghe difficoltà si presentavano per un altro pregiatissimo crostaceo “mazarese”: lo scampo (Figura 1).
Inoltre, aggiungevo, solo lo strascico di fondo poteva rifornire i mercati di gamberoni e scampi in quantità (anche se a un prezzo elevato), mentre la capacità di cattura di questi crostacei con altri attrezzi, come le nasse o le reti fisse, era così irrisoria che, eliminando lo strascico, il prezzo al dettagli sarebbe schizzato a livelli tali da poter essere gustati solo dai più facoltosi consumatori.


Contestualizzare ai giorni d’oggi e per la situazione italiana, il ragionamento di cui prima può essere sintetizzato nei tre seguenti passaggi.
A) La pesca marittima sfrutta le risorse rinnovabili selvatiche di molluschi, crostacei e pesci, ma è aleatoria, richiede ingenti sforzi sia in termini di naviglio e pescatori che di controllo e sanzioni, solleva contenziosi sia nazionali che internazionali, assorbe sempre più risorse economiche per studiarla e raccogliere i dati necessari per cercare di arrivare ad una gestione razionale (oggi diciamo sostenibile) e, in ogni caso, ha degli impatti negativi notevoli sull’ambiente che possono essere solo in parte mitigati se si vuole continuare a pescare.
B) Da millenni, gli esseri umani hanno imparato a selezionare gli organismi che gli servono per nutrirsi, vestirsi e commerciare fra loro coltivando le piante ed allevando conigli, polli, maiali, mucche ed altro (fra cui le lumache).
C) Dato che gli organismi che vivono nel mare di cui al punto A (escludendo le tartarughe e i mammiferi marini perché oggigiorno è impensabile pensare a mangiarli o usarli in qualche modo commerciale, almeno in Italia) sono assimilabili agli organismi terrestri di cui al punto B, forse è il caso di finirla con la pesca e passare all’allevamento in mare, ovvero ricorrere a 360° alla maricoltura.
Come si vede, il percorso A -> B -> C non sembra fare una piega ed è estremamente allettante (specialmente per i non specialisti) pur nella semplificazione introdotta in questa sede di limitarci a considerare solo l’ipotesi di allevamento di organismi prettamente marini.
Si sta parlando dello scenario in cui, individuate le più importanti specie marine (attualmente oggetto di sfruttamento allo stato selvatico) da “coltivare / allevare”, il ciclo produttivo si deve realizzare principalmente con impianti localizzati a mare lasciando sulla terraferma le strutture di supporto, magari necessarie per mantenere lo stock dei riproduttori (anche detto “parco” o “broodstock”) e produrre le relative uova e reclute / giovanili (avannotti / fingerlins nel gergo della acquacoltura in generale).
Come sempre, la precedente precisazione è lo spunto per definire meglio cosa si intenda per maricoltura almeno in questa sede. Una branca dell’acquacoltura finalizzata alla produzione di organismi marini secondo il seguente ciclo: riproduttori ->uova fecondate -> avannotti -> intervallo di taglie ritenute non commerciabili (ingrasso) -> taglia (pezzatura) ritenuta commercializzabile nell’ambito della domanda dei mercati nazionali o internazionali. Da notare che in questa definizione, il precedente ciclo deve avvenire completamente sotto il controllo degli operatori, cioè senza alcun ricorso agli stock selvatici della stessa specie una volta formato lo stock riproduttore.
Fatte queste debite premesse, vediamo a che punto siamo con la maricoltura in Italia, premettendo che chi scrive non è uno specialista e quindi sarebbe auspicabile un intervento divulgativo di qualche collega esperto.
Certo, a questo punto, qualche lettore potrebbe giustamente chiedersi perché un “pescatore” si esprima sulla maricoltura. La ragione è che, al momento, pesca marittima e maricoltura sono interconnesse e non a caso sono spesso trattate insieme nei vari regolamenti e piani d’azione (per esempio, il programma operativo 2014 – 2020 del Piano del Fondo Europeo per gli Affari Marittimi e la Pesca, FEAMP, del 2015, o il documento CREA, 2015).
A parte la competizione per i finanziamenti pubblici a ricerca e sviluppo, la maricoltura attuale è attenzionata perché utilizza anche stock selvatici (per esempio, come avviene nelle stabulazioni del Tonno rosso), è invocata perché si spera possa ridurre (se non annullare) l’impatto della pesca sugli stock selvatici e sul loro ambiente e possa dare lavoro ai pescatori che si trovano disoccupati a causa delle riduzioni delle flotte (cioè si spera che i pescatori possano riconvertirsi in allevatori).
Ovviamente, non è questa la sede dove approfondire la tematica acquacoltura / maricoltura con tutte le possibili articolazioni (vallicoltura, piscicoltura, molluschicoltura, d’acqua dolce, salata e salmastra, impianti a “terra” e a mare, le varie tipologie di costi etc.) e problematiche anche terminologiche (per esempio, cosa si intende con precisione quando si parla di “produzione”) e legislative (per esempio, la relativa recente equiparazione alle attività “agricole”).
Di contro, lo scopo di questa nota vorrebbe essere quello di dare una minima risposta all’interrogativo iniziale:
In che misura la maricoltura italiana potrà sostituire la pesca degli stock selvatici nel prossimo futuro? Stiamo parlando di una possibile realtà o di un mito come la Fontana della giovinezza?
Per rispondere ci si limiterà a richiamare sinteticamente alcuni documenti fra cui il voluminoso (più di 400 pagine!) e approfondito 5°capitolo del rapporto sulla Pesca e Acquacoltura Italiana del 2011, il Piano strategico per l’acquacoltura in Italia per il periodo 2014-2020 e altri pochi documenti riportati nella bibliografia essenziale.
Per iniziare, cominciamo a vedere cosa ci dicono i documenti di cui prima (iniziando dalla Figura 2) riguardo le più rilevanti specie prodotte dall’acquacoltura (in generale) italiana, con la precisazione che probabilmente mancano informazioni relative agli anni più recenti che non si è riusciti a trovare.


Come si percepisce immediatamente dalla Figura 2, la parte del leone della produzione d’allevamento di pesci la fanno spigole e orate, specie però considerate eurialine, cioè che sopportano bene diminuzioni e fluttuazioni della salinità.
Il rapporto del 2011 ci parla anche di un po’ di alghe, delle notevoli produzioni di molluschi bivalvi e di specie che potremmo definire “di nicchia”, cioè la cui produzione non è generalizzata e risulta di gran lunga inferiore ai 5 top in Figura 2. Da notare che, a parte i cefali, queste specie di nicchia sono più legate al mare (cd stenoaline) e riguardano saraghi, ombrine, dentici, pagri, gallinelle (i cd cocci), pesci piatti (sogliole e rombi) e, last but not least, il Tonno rosso. Per quest’ultimo è opportuno rimarcare, a parte le produzioni relativamente modeste e irregolari nel tempo, che si tratta di esemplari catturati da giovani dagli stock selvatici e stabulati in vasche per il cd “ingrasso”.
Ma che succede se disponiamo in un unico grafico a torta i precedenti 5 pesci con cozze / mitili e vongole filippine?
La risposta ce la da un documento del CREA (2015) dove si trova la Figura 3.


Il documento ci dice anche che nel 2012 a livello nazionale si allevavano 30 specie di pesci, molluschi e crostacei, ma che effettivamente il 97% della produzione si basava su sole cinque “voci”: la trota (acque dolci), la spigola e l’orata (acque marine / salmastre), mitili e vongole veraci.
Insomma, è evidente che 10 anni fa la maricoltura rappresentava un settore minoritario dell’acquacoltura e non solo per l’Italia sulla base del grafico riportato in Figura 4.


Tornando al voluminoso rapporto del 2011, tralasciando il cenno alle specie cd “ornamentali”, lo stesso riporta e descrive i promettenti sviluppi sperimentali con alcune produzioni pilota su specie pregiate e molto richieste dai consumatori (disposti a pagarle a caro prezzo) come ricci di mare, gamberi mazzancolle, aragoste, polpi, cernie e addirittura dei tentativi con ibridi / incroci di specie (come il cd Pantice).
Tuttavia dalla Figura 5, è chiaro che almeno uno dei problemi per le specie innovative in Italia (sempre ai tempi del rapporto di cui prima) era dato dalla limitata capacità di procacciarsi o produrre gli “avannotti” (insomma i giovanili).


C’è da notare nella Figura 5 l’assenza di giovanili di tonno e ricciole specie trattate qualche anno dopo in altri studi fra i quali abbiamo selezionato il documento AA.VV. (2013) dedicato principalmente proprio ai due grandi pelagici considerati specie sia strategiche sia ottime candidate per l’acquacoltura marina innovativa.
Fra le 185 pagine del rapporto, spiccano affermazioni molto promettenti per le ricciole.
“… il progetto ha segnato uno dei migliori successi internazionali nella produzione massiva di questa specie, non solo per il numero prodotto, ma soprattutto per la qualità dei giovanili prodotti …. (cfr. la successiva Figura 6)
Un po’meno promettenti (ma comunque incoraggianti secondo gli Autori) le affermazioni relative al tonno.
“In conclusione, questo studio … ha comunque fornito un contributo originale all’ampliamento delle conoscenze sullo sviluppo ontogenetico del tonno rosso. Ha permesso infatti di … evidenziare l’esigenza di modificare le condizioni di allevamento delle larve al fine di migliorarne lo sviluppo”.


La Figura 6, oltre che corrispondere perfettamente alla definizione di maricoltura proposta in questa sede, avrebbe dovuto essere suggellata dalla successiva produzione commerciale della ricciola in Italia come sembra essere avvenuto recentemente in altri paesi. Un’azienda del nord Europa (cfr. Pesceinrete, 20 ottobre 2021) è riuscita a produrre qualche centinaio di tonnellate / anno di ricciole allevate (però a terra) in parte conferite ad una famosa catena di supermercati italiani presente anche a Mazara (dove però nessuna circolare sembra essere giunta ai responsabili e quindi la ricciola di allevamento ancora non si trova nei banconi).
Per cercare di capire il motivo per il quale i supermercati italiani sembrano intenzionati a vendere la ricciola allevata in altri paesi vediamo cosa ci dicono altri due documenti selezionati, entrambi successivi (di poco e di qualche anno) al rapporto del 2011 ed entrambi latori di un quadro un po’ meno promettente per la diversificazione delle specie nella maricoltura in Italia.
Il primo (Santulli, 2013), nell’evidenziare il rapido e profondo tracollo del settore siciliano dopo il 2000, riporta però anche alcune prove di allevamento su specie nuove come i ricercatissimi ricci di mare (Figura 7) o lo scorfano rosso.


Il secondo documento (Mirto et al., 2017), pur prospettando uno scenario positivo per l’acquacoltura italiana in generale (“nel periodo 2014-2030 si stima un incremento medio del 38% del volume di produzione, sia per un aumento della capacità produttiva degli impianti operanti, sia per la realizzazione di nuovi impianti” e “… è attesa una crescita più sostenuta della piscicoltura in ambiente marino”) tuttavia non cita alcuna nuova specie in generale per l’Italia e nemmeno conferma il proseguimento dell’allevamento dei ricci di mare o l’avvio dell’allevamento commerciale dello scorfano rosso entrambi i casi citati da Santulli (2013).
Di fatto, il documento di Mirto et al. (2017), riconoscendo che “Dai tempi della Legge 41/82 e dell’introduzione dello strumento dei Piani Triennali … non sono stati fatti grandi passi in tema di diversificazione delle specie commercializzate” sembra confermare che spigola e orata rimarranno nei prossimi anni più del 90% dei pesci di mare allevati, mentre un ruolo minoritario e alternante sarà rappresentato dalle specie già viste nel 2011 come ombrina boccadoro, sarago pizzuto e Tonno rosso. Per quest’ultima specie, però, il documento del 2017 ci dice anche che non c’è stata produzione nel biennio 2012-2013 e che il suo allevamento ha subito una profonda crisi a causa delle restrizioni della politica comunitaria, i costi di gestione non sostenibili e le difficoltà commerciali nell’export del prodotto principalmente verso il Giappone.
In sintesi, negli ultimi 10 anni la maricoltura italiana sembra non essere riuscita ad avviare una produzione commerciale di specie marine innovative appena appena comparabile con la consolidata produzione di spigole e orate e tutto ciò nonostante gli ingenti investimenti pubblici al settore per la ricerca di specie nuove. Detto in altri termini, il confronto attuale fra pesca marittima e maricoltura in Italia sembra ricordare un celeberrimo motto (forse apocrifo, ma sempre molto suggestivo ed efficace)
“Se Atene piange, Sparta non ride!”
Per completezza c’è da dire che le criticità si percepiscono su una scala geografica più ampia dato che anche a livello mondiale il contributo della maricoltura alla produzione sembra rimanere minoritario rispetto alla pesca nonostante una tendenziale crescita negli ultimi 20 anni (Figura 8).


In effetti, sia la pesca che la maricoltura sono affetti da notevoli problemi (vedi Tabella in appendice); per la maricoltura, in particolare, le prime delle principali problematiche sono presentate in Figura 9.


Certo, la Figura 9 non esplicita le altre principali problematiche che sembrano attanagliare la maricoltura italiana e che sono integrate fra altre nella Tabella in appendice.
• Costituire lo stock riproduttore che deve a sua volta produrre uova e larve.
• Ridurre l’elevatissima mortalità nei primi stadi di sviluppo (uova -> larve -> giovanili) e non solo in queste fasi perché, in alcune specie, comportamenti aggressivi e financo di cannibalismo possono verificarsi lungo tutto il periodo della produzione (preingrasso e ingrasso).
• Garantire lo spazio vitale! Per quanto grande possa essere una vasca a terra o gabbia a mare è evidente che rappresentino un ambiente asfittico per specie abituate a vagare liberamente nell’alto mare aperto (come i grandi pelagici, cioè le varie specie di tonni, il pesce spada, le ricciole, le leccie, le lampughe ed altro, compresi i gamberoni rossi), a nuotare come forsennati in prossimità dei fondali (come i naselli) per finire con i piccoli pelagici come sardine e acciughe che amano stare insieme in banchi estesi.
• Trovare fonti più economiche per il mangime ricordando che più la specie da allevare si colloca in alto nella piramide alimentare (detta anche piramide trofica; Figura 10) più cresce la quantità di cibo necessaria per produrre una data quantità di prodotto finale.


Il lettore arguto potrà obiettare che sia le ricciole che le cernie sono voraci carnivori e quindi perché la prima è più promettente della seconda? La ragione è che occorre considerare anche altri fattori del ciclo di vita di una specie fra cui la rapidità di crescita (in genere, di gran lunga più alta nei pelagici che non nei demersali o bentonici come le cernie o gli scorfani) e le criticità del periodo larvale come la sua durata.
Non a caso, fra le (poche) specie innovative considerate nel già citato progetto sulla diversificazione (https://www.diversifyfish.eu/) è stata inclusa la cernia dei relitti (wreckfish, Polyprion americanus) che trascorre la fase iniziale della vita in acque superficiali, preferibilmente all’ombra di formazioni naturali o artificiali galleggianti.
Di contro, un recente esempio di promettente categoria di organismi marini da cercare di allevare in Italia è dato dai cetrioli di mare o Oloturie (cfr. Ballatore, 2021), parenti dei ricci di mare, ricercatissimi dai consumatori asiatici; non a caso, si tratta di animali bentonici che ricavano il nutrimento dalle particelle di cibo nei sedimenti (detritivori). Come sempre, c’è l’altro lato della medaglia che consiste nel fatto che si sa ancora poco sul ciclo di vita (crescita e mortalità) delle oloturie mediterranee.
In conclusione, i ghiottoni del mare italiani dovranno aspettare un po’ di anni per trovare sui mercati in quantità apprezzabili e a prezzi competitivi specie pregiate come tonni, cernie, scorfani e simili, provenienti dalla maricoltura a ciclo completo (dalle uova al prodotto finale), mentre ci vorranno forse decenni di sviluppo scientifico e tecnologico per produrre nelle vasche specie più “complicate” come calamari, aragoste, gamberoni rossi, scampi, acciughe, sardine, triglie, naselli, pesce San Pietro (o di Giove) e gli squali palombi.
Questo scenario che, rimanendo in attesa di un articolo divulgativo di un collega specialista, appare, allo stato degli atti, come un’evidenza incontrovertibile, dovrebbe fare riflettere tutti coloro i quali a gran voce chiedono di continuare a ridimensionare (addirittura chiudere del tutto) la pesca a strascico italiana e più in generale la pesca marittima degli stock selvatici prospettando che a breve la maricoltura potrà sopperire le mancate catture.
Siccome le altre alternative sono consumare meno specie pregiate o aumentare ulteriormente le importazioni di pescato ed allevato dall’estero, come scriveva un famoso ed evidentemente lungimirante autore siciliano, nel confronto pesca marittima – maricoltura in Italia dovrebbe ben valere il detto “Pensaci Giacomino!”
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