Non sapendo dove trovare la favolosa polvere Mutabor, che fa capire il linguaggio degli animali, sarebbe necessario far tornare in vita, anche per svolgere solo il sondaggio di cui dopo, qualcuno che potesse spiegare ai pesci che vivono nella fascia costiera dei nostri mari cosa sia lo scuttling e farli votare in merito.
Di Adamo, il nostro progenitore, o San Francesco non siamo sicuri che sapessero parlare agli organismi marini, ma abbiamo prove certe che Sant’Antonio da Padova riuscisse a richiamare dalla costa tutti i pesci del mare nelle sue prediche e che Cola Pesce potesse parlargli e capirli direttamente nelle profondità marine.
Immaginando di essere riusciti a richiamare il sant’uomo ed il mitico apneista messinese, siamo certi che gli stessi sarebbe felice di promuovere il sondaggio con i pesci chiedendo loro se sono d’accordo a favorire lo scuttling nei mari italiani.
Ovviamente, per prima cosa, occorrerebbe spiegare che la parola si riferisce alla pratica di collocare deliberatamente navi in ferro sui fondali sabbio fangosi della fascia costiera (diciamo dai 20 ai 100m di profondità) al fine di ostacolare lo strascico illegale, proteggere i litorali, creare oasi di ripopolamento per tutti gli organismi marini, favorire la pesca artigianale (riducendo anche i conflitti con lo strascico) e, non ultimo, promuovere il turismo subacqueo sia ricreativo (immersioni con circuito aperto, cioè ad aria, sino a 40m) e tecnico (immersioni con circuiti chiusi come i re-breather, sino a 100m).
Siamo certi che al sondaggio parteciperebbe anche la Posidonia, spesso impropriamente inclusa fra le alghe (triscina) mentre si tratta di una pianta con i fiori (seppure incospicui) e i frutti (le “olive” verdi che, di tanto in tanto, si trovano spiaggiate); come le altre piante, almeno sulla base di novelle orientali, anche la Posidonia saprebbe parlare.
Siamo anche certi che il risultato del sondaggio sarebbe un sì a maggioranza bulgara e, a questo punto, il curioso lettore di pesceinrete si potrebbe chiedere perché mai gli organismi marini (con Posidonia, spugne, gorgonie rosse e arancio, pesci e aragoste in prima fila) voterebbero così massicciamente a favore dello scuttling.
La prima ragione deriva dal famoso detto “subire il danno e la beffa” o, più prosaicamente, (alla meridionale) “sentirsi cornuti e mazziati”; infatti, nonostante i draconiani divieti ad esercitare lo strascico entro le 3 miglia dalla costa (o entro i 50 metri di fondo), attivati in Italia a metà degli anni 60 del secolo scorso (la beffa!), i giovani di saraghi, triglie, pagelli e quant’altro sono stati sistematicamente massacrati dai pescatori che illegalmente strascicavano dove non erano autorizzati a farlo (il danno!).
Oltre alle gorgonie e ai pesci, le reti a strascico trainate entro la fascia costiera hanno falciato e completamente eradicato in alcune aree di mare la prateria di Posidonia, alterando non solo un importante ecosistema, ma anche contribuendo all’erosione delle spiagge. Per inciso, anche le coste rocciose possono subire danni a causa delle nubi di sedimento sollevate dai divergenti e poi trasportate dalle correnti a coprire e soffocare gli organismi marini che vivono attaccati agli scogli come le gorgonie o il corallo rosso.
Seppure in tono leggermente minore rispetto al passato, lo strascico illegale lungo la fascia costiera italiana continua tutt’oggi; un recente rapporto di OCEANA ha stimato ameno 1342 ore di strascico illegale entro le 3 miglia o i 50 m solo nel 2019.
Questa attività molto remunerativa, ma anche disruttiva per l’ecosistema, è contrastata più che dai pochi controlli da alcune oggettivi ostacoli (le così dette afferrature) in parte naturali (come le scogliere sommerse) ed in parte derivati dalle attività umane (o antropiche).
Fra le afferrature di origine antropica, quelle che rappresentano i principali spauracchi per lo strascico illegale sono i relitti di navi in ferro (dato che gli scafi in legno vengono ben presto degradati dalle teredini).
Siccome si dice che un’immagine vale più di 1000 parole, l’effetto deterrente sullo strascico si può apprezzare guardando come appariva ai sub il relitto del Kent poco dopo il suo affondamento accidentale, a ca 50 metri, in prossimità della tonnara di San Vito lo Capo in Sicilia (Figura 1).
Figura 1 – Il relitto Kent avvolto dalle reti subito dopo il suo affondamento. Da Cappelletti (1997).
Una volta prese le misure, i pescatori si sono ben guardati dal continuare a rischiare le loro reti e l’eliminazione di quelle esistenti ha permesso al Kent di sviluppare tutto il suo potenziale biotico ospitando, ben presto, un’oasi di vita multicolore.
A distanza di quasi 50 anni dall’affondamento, infatti, il Kent è rivestito non più da reti, ma da un tappeto di vegetali ed animali invertebrati (alghe, spugne, briozoi, gorgonie, alcionari, ascidie, stelle di mare, ricci di mare e molto altro) e organismi vertebrati sia demersali (i famosi grossi scorfani rossi, Figura 2) sia epipelagici (ricciole e dentici).
A parte la così detta “minutaglia” (composta da miriadi di castagnole nere e rosse, boghe, suri etc.) che affolla, insieme ai saraghi e alle tannute, le sovrastrutture del relitto, anche i suoi spazi interni (cabine, stive, gavoni etc.) sono letteralmente riempiti dai gamberi e frequentati da grosse aragoste, musdee, gronchi e murene.
Figura 2 – Uno dei numerosi scorfani rossi di grande taglia che si incontrano sul Kent.
Insomma, un’oasi di biodiversità all’ennesimo livello, ma circondata da cosa?
Da quasi il nulla dato che il relitto poggia su una distesa sabbio – fangosa quasi sempre spoglia di qualunque forma di vita macroscopica visibile, anche a causa di decenni di strascico illegale. Ovviamente, il relitto è divenuto il sito elettivo per le immersioni dei vari diving locali e la stessa cosa avviene per altri relitti affondati, sempre incidentalmente, nella fascia costiera dei mari Italiani. Per citare solo pochi esempi, centinaia di sub visitano ogni anno la cisterna Pavlos V, a Nord di Trapani, o la superpetroliera Haven, fuori Arenzano, senza dimenticare alcuni relitti centenari come il dragamine Filicudi (a 38 m, sempre fuori Trapani) o la nave di Faro (35 – 65 m, vicino Messina).
Quindi, quale migliore prova che lo scuttling potrebbe rappresentare una valida risorsa non solo per proteggere la fascia costiera, ma anche come volano per sviluppare le attività produttive? Oltre la pesca artigianale e ricreativa ed i diving, anche i cantieri navali potrebbero trarre giovamento dallo scuttling dato che gli scafi in ferro vanno bonificati eliminando vernici, olii, plastiche, amianto e quanto altro possa costituire un pericolo per gli organismi marini.
Non a caso, in quasi tutto il mondo, lo scuttling è divenuto una pratica diffusa ed incoraggiata sia valorizzando i relitti già esistenti sia affondando navi di grandi dimensioni (financo le portaerei!) e non escludendo di collocare i relitti anche all’interno delle aree marine protette. Uno dei casi più famosi di valorizzazione dei relitti esistenti è dato dal Thistlegorm, una nave mercantile, adattata a trasporto armi e munizioni, affondata nel Mar rosso nel 1941; ogni anno, da tutto il mondo, arrivano a visitarlo migliaia di subacquei contribuendo, in modo certamente non trascurabile, all’economia locale.
E in Italia come siamo messi con lo scuttling? Forse alle calende greche!
E dire che si era iniziato bene proprio a Mazara del Vallo dove, nel 1990, un peschereccio in ferro dismesso (il Prudentia) fu affondato a ca 30m, dopo la bonifica, deliberatamente vicino Capo Granitola; poi il meccanismo si è inceppato, specialmente a causa dei pareri assolutamente contrari espressi da parte della comunità scientifica.
In sintesi, la posizione negazionista sullo scuttling parte dall’idea che già gli esistenti relitti di navi (migliaia solo nei mari italiani) rappresentino un pericolo per gli ecosistemi marini e quindi la proposta di affondare nuovi relitti, seppure bonificati e messi in sicurezza (come previsto dai protocolli scuttling), è un anatema che va scongiurato ed impedito con tutte le forze e senza appello.
Ovviamente, i tentativi di dimostrare questa presupposta pericolosità, almeno per i relitti siciliani affondati incidentalmente nella fascia costiera, è fallita clamorosamente, dato che i discutibili test effettuati si sono dimostrati inconclusivi. Per inciso, i colleghi dello studio citato in bibliografia si sono dimenticati di analizzare due altri relitti “costieri”: il già visto Prudentia (ricco di aragoste) e la nave di ricerca Tethis del CNR, speronata da un mercantile, ed affondata a 6 miglia da Mazara.
Quali le differenze fra i due relitti?
Il primo era stato bonificato e messo in sicurezza (quindi nessun rischio di contaminazione ambientale, ma solo effetti positivi come struttura anti strascico e di ripopolamento), il secondo perde ancora carburante nonostante non ce ne dovrebbe essere più, vista la supposta bonifica a cui si dice sia stato sottoposto.
Vada come vada, l’ostracismo di molti studiosi nostrani ha determinato la chiusura totale verso lo scuttling italiano con conseguenti perdita di occasioni preziose. Basti pensare al recente programma di buy back implementato dal governo italiano per ridurre la capacità delle sue flotte da pesca. Centinaia di pescherecci a strascico in ferro sono stati ritirati (a suon di centinaia di milioni di euro di denaro pubblico) e invece di essere, almeno in parte, destinati a divenire barriere artificiali (come anche auspicato dalla Unione Europea) sono stati disassemblati e trasformati in ferro vecchio di risulta da conferire in discarica o (nella migliore delle ipotesi) presso le fonderie per un improbabie recupero.
Quindi niente scuttling in Italia, niente ferraglia in mare, niente relitti che potrebbero proteggere la fascia costiera, ma anche essere utilizzati dalla malavita per scaricare rifiuti tossici (come le famose navi dei veleni) come ventilato da qualcuno.
Anche se chi scrive questa nota non è ovviamente d’accordo con i negazionisti dello scuttling, nulla di male, in democrazia la maggioranza vince e se la comunità italiana preferisce non ricorrere allo scuttling, pazienza.
Passato in giudicato lo scuttling, però, dovrebbe sorgere spontanea la domanda:
Cosa si dice in Italia sulle altre tipologie di barriere artificiali collocate sulla fascia costiera, come quelle fatte assemblando blocchi di cemento a mo’ di “piramidi”, molto in voga nei decenni passati, proprio come deterrenti allo strascico illegale?
Per avere un’idea di quelle che appaiono come sorprese (forse contraddizioni?) più o meno nascoste nella posizione dei negazionisti basta girovagare sul recente sito del Gruppo Habitat artificiali coordinato dall’Istituto al quale lo scrivente di questa nota afferisce: l’IRBIM CNR http://www.habitatartificiali.irbim.cnr.it/wp/gruppo-habitat-artificiali/
La prima sorpresa palese è data dalle definizioni sia generali
Habitat artificiali: “Qualsiasi oggetto, di origine naturale o artificiale, posizionato deliberatamente dall’uomo nell’ambiente acquatico per vari scopi.”)
sia particolari, dato che il sito individua tre categorie di Habitat artificiali:
- Barriere Artificiali: “Corpi naturali o artificiali deposti sul fondo … per riprodurre alcune funzioni degli habitat rocciosi naturali, come protezione, restaurazione, concentrazione e/o incremento delle risorse acquatiche.”);
- Fish Aggregating Devices (FADs): “Strutture flottanti a mezz’acqua o in superficie impiegate in diverse tecniche di pesca per il richiamo e l’aggregazione di specie ittiche.”; e
- Altre strutture: “realizzate dall’uomo nell’ambiente acquatico per scopi primari diversi ma che, come effetto secondario, esplicano alcune funzioni delle Barriere Artificiali o dei FADs, es. … piattaforme di estrazione off-shore, scogliere frangiflutto”.
Molto interessanti sono anche le eccezioni alle definizioni di cui prima limitate, però, solo alla prima categoria cioè le Barriere Artificiali:
“Il termine non include strutture sommerse come isole artificiali, cavi, sealine, piattaforme di estrazione off-shore, ancoraggi e scogliere frangiflutto per la protezione delle coste.”)
A parte qualche evidente incongruenza (per esempio, le scogliere frangiflutto non sono considerate “Barriere artificiali”, ma rientrano nelle “Altre strutture di Habitat artificiali”), e dimenticanze nelle specifiche (per esempio, le migliaia di pesanti pietre di ancoraggio e decine di migliaia di km di filo di plastica abbandonati in mare ogni anno dai FAD), c’è da evidenziare come nonostante le definizioni di Habitat Artificiali, Barriere artificiali e Altre Strutture calzino a pennello con lo scuttling, nulla è riportato per i relitti di navi affondate sia incidentalmente che deliberatamente.
Ma se i relitti sono considerati tabù e non degni di essere candidati per qualunque tipo di habitat artificiale perché non è stato specificato nella definizione generale?
Si sarebbe potuto scrivere “Habitat artificiale è definito come Qualsiasi oggetto, di origine naturale o artificiale, posizionato deliberatamente dall’uomo nell’ambiente acquatico per vari scopi ad eccezione degli scafi di navi affondate sia per cause accidentali o per decisione deliberata (scuttling)”.
Una possibile risposta è che sarebbe stato molto imbarazzante per gli anonimi curatori del sito escludere “in chiaro” i relitti sommersi. In primo luogo, perché il prestigioso National Ocean Service del NOAA americano scrive che “Submerged shipwrecks are the most common form of artificial reef” e quindi i relitti sono considerati barriere artificiali a tondo pieno come petrlatro riconosciuto anche dal recente report della FAO del 2015 riportato in bibliografia.
In secondo luogo, si sarebbe dovuto spiegare l’esclusione dalla bibliografia nel sito delle numerose pubblicazioni scientifiche che hanno evidenziato i positivi effetti dei relitti sugli ecosistemi marini e sul turismo subacqueo e il silenzio sulla recente diffusione dello scuttling in molti paesi mediterranei anche a noi vicini come a la Croazia, l’Albania, la Turchia e Malta (Figura 3).
Figura 3 – Lo scuttling del dragamine P31 nel 2007 a Malta (in alto) e della nave passeggeri 9 Eylül nel 2016 in Turchia (in basso). I due relitti sono divenuti fra i siti più frequentati dai sub.
Dimenticanza o atto volontario, forse sarebbe il caso di colmare la lacuna inserendo la voce scuttling nel sito IRBIM CNR e riportando le due scuole di pensiero (favorevoli e contrari).
Ma la sorpresa più rilevante nel sito IRBIM CNR non è l’omissione dello scuttling, ma la comparsa di un’altra tipologia di relitto.
Come si suol dire in termini di legge, a latere della definizione “Altre strutture”, compaiono (come già accennato e con addirittura annessa fotografia; Figura 4) le piattaforme estrattive di gas e petrolio che, a centinaia, costellano la fascia costiera italiana.
Come confermato dalle recenti dispute italiane sul prorogare o meno in automatico le concessioni alle compagnie petrolifere, una piattaforma estrattiva che buca il fondo marino per fare uscire gli idrocarburi fossili non è notoriamente considerata un’entità in accordo idilliaco con la protezione degli ecosistemi acquatici. Basti ricordare i milioni di barili di petrolio sversati nel 2010 nel Golfo del Messico a causa di un incidente occorso alla piattaforma Deep Horizon.
In effetti, nel sito IRBIM CNR si percepisce un certo imbarazzo perché queste imponenti strutture non vengono incluse nella I categoria (Barriere artificiali propriamente dette) ma nella III (Altre strutture), nonostante le piattaforme siano spesso considerate da altre prestigiose agenzie marine e nella letteratura scientifica come vere e proprie “artificial reefs”.
Seppure non specificato, la foto e l’inclusione delle piattaforme nel sito e la citazione dei corrispondenti lavori nella bibliografia, fanno percepire una favorevole predisposizione a trasformare le piattaforme estrattive in pseudo barriere artificiali sommerse alla fine della loro vita produttiva, mentre la damnatio memoriae dei “relitti” e dei relativi lavori, pur prodotti anche da ricercatori dell’IRBIM CNR (vedi la bibliografia essenziale di seguito riportata), non lascerebbe dubbi che lo scuttling sia visto come fumo negli occhi.
Figura 4 – L’immagine della piattaforma estrattiva off-shore presente nella pagina “Definizione Habitat Artificiali” del sito “Gruppo Habitat artificiali” coordinato dall’IRBIM CNR.
Vanamente il lettore di pesceinrete cercherà analoghe immagini relative a relitti di navi sommerse.
Quindi un no deciso e senza appello alla ferraglia rappresentata dalle navi bonificate e messe in sicurezza previste dallo scuttling, ma un implicito sì alla ferraglia costituita dalle imponenti piattaforme estrattive dismesse.
Certamente, chi è favorevole allo scuttling vede di buon occhio anche le piattaforme dismesse che a migliaia sono state già usate come barriere artificiali (e non come Altre strutture!) nel mondo e che di fatto sono molto vicine (anche se meno attrattive per i sub) ad un relitto di una nave affondata con lo scuttling.
Tuttavia, la domanda che dovrebbe nascere spontanea al lettore curioso di pesceinrete è perché il sito IRBIM CNR sembra applicare due pesi e due misure?
Lascio al lettore di pesceinrete trovare una plausibile risposta a questa domanda.
Ricercatore senior IRBIM CNR di Mazara del Vallo