Le politiche di pesca dell’UE, la famosa e famigerata PCP (Politica Comune della Pesca), già dal 2014 sono state rivisitate nel tentativo di porre fine alla pesca eccessiva (overfishing). In quest’ottica, la UE ha imposto ai propri stati membri l’adozione, entro il 2020, di misure volte alla sostenibilità delle attività di prelievo degli stock ittici disponibili ma, una stima dello stato degli stock stessi, sia in termini quantitativi che qualitativi, almeno per il bacino del Mediterraneo, non è stata mai fatta.
A questo proposito, nel tentativo di porvi rimedio, i ricercatori del CNR, in collaborazione con un gruppo di ricercatori europei, hanno effettuato e pubblicato uno studio per la stima dello stato e dello sfruttamento di circa 400 stock commerciali europei e mediterranei. I dati più importanti emersi dallo studio ci dicono che l’85% degli stock è al di sotto delle condizioni di sostenibilità di pesca; che il 64% ad oggi è sovrasfruttato con un rischio potenziale di collasso nei prossimi anni; se le ore di pesca fossero ridotte del 20% complessivamente, entro il 2030 avremmo oltre il 57% di risorse alimentari provenienti dal mare in più rispetto ad oggi, con un possibile incremento del benessere economico e sociale complessivo.
Ora, però, il sospetto è che come al solito si stia facendo di tutta l’erba un fascio. Ovvero non si tenga conto della peculiarità tutta italiana, quella della piccola pesca, che sui grandi numeri è destinata a soccombere difronte alle statistiche e gli effetti prodotti dalla pesca industriale effettuata in Mediterraneo da flotte comunitarie ma soprattutto da parte di soggetti terzi extra UE.
Come al solito ci si ferma ai numeri senza approfondire le peculiarità di chi opera nel settore e, come sempre accaduto quando si è legiferato in termini di PCP, si considera l’Europa un “unicum” senza tener conto delle diversità dei singoli membri. Nel caso delle politiche di pesca, infatti, la strategia comunitaria ha sempre avuto una diversa attenzione per il Nord dell’Unione dove le flotte di pesca sono di tipo industriale con stazza e numero di imbarcati di gran lunga superiori a quelle mediterranee, così come nel definire le norme di approccio agli stock non si è mai tenuto conto delle specificità dei bacini e la biodiversità che li popola.
Una pesca prevalentemente monospecifica in Atlantico, nel mare del Nord e nel Baltico dove le specie ittiche di interesse commerciale sono alcune decine, di contro una spiccata varietà di specie ittiche in Mediterraneo (almeno 500 edibili) di cui circa 160 di interesse commerciale. Va da se tale varietà e ricchezza ha creato le condizioni per una pesca tradizionalmente artigianale, multi-specifica, cioè rivolta alla cattura di un numero elevato di specie, e per questo maggiormente selettiva. Inoltre nel Mediterraneo i soggetti che operano nel settore entro e al di fuori delle acque territoriali sono molteplici.
Da una parte si colloca la pesca dei 6 Stati membri UE (Spagna, Francia, Italia, Grecia, Malta e Cipro), fortemente e giustamente regolamentata; dall’altra la pesca dei paesi nordafricani e della sponda orientale, in crescita, ma che tende a ripetere gli errori fatti dai Paesi già sviluppati, di una pesca non sempre razionale e controllata.
All’attività dei Paesi rivieraschi, prettamente di carattere artigianale, si aggiunge e quasi si contrappone una flotta che svolge attività industriale, battente bandiera giapponese, coreana, o più spesso con bandiere di comodo, che continua a pescare oltre i limiti delle acque territoriali in assenza di qualsiasi controllo.
Da ultimo una considerazione. I risultati pubblicati sono stati presentati a febbraio 2017 al Parlamento Europeo ma, poiché potrebbero avere un alto impatto sulle politiche di pesca dell’Unione Europea nel prossimo futuro, la mancanza di tempestività e di attualità come al solito rischia di fotografare una situazione diversa da quella attuale. È infatti lecito pensare che dati pubblicati nel febbraio 2017 siano stati raccolti nel 2016 o forse prima, e che questi produrranno effetti sul piano politico nel 2018 o dopo quindi, se lo stato delle risorse ittiche viene monitorato ad intervalli temporali di quattro o sei anni, rischia di produrre misure che male si attagliano sulla realtà falsando le economie di scala, decretando la morte di tante comunità rivierasche che basano la propria sopravvivenza sulla pesca.
Così UNCI Agroalimentare commentando i recenti dati diffusi dal CNR.