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Home Sostenibilità

È più nutriente il pesce selvaggio o quello d’allevamento?

Mariella Ballatore by Mariella Ballatore
5 Novembre 2018
in Sostenibilità
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La scelta tra pesci selvatici e di allevamento è spesso un dilemma per i consumatori. Il costo del pesce selvatico catturato è il doppio di quello delle controparti di allevamento; una differenza che molti credono sia giustificata da un migliore gusto e maggiori proprietà nutritive. Tuttavia, con gli stock selvatici in declino, l’acquacoltura fornisce non solo un alternativa più economica, ma anche un’alternativa apparentemente più sostenibile.

Un gruppo di esperti ha usato metodi oggettivi per giudicare il sapore e le qualità nutrizionali dei pesci di allevamento, e i risultati possono far storcere il naso a chi spende di più privilegiando i pesci catturati in natura. “Il pesce proveniente dagli allevanti di acquacoltura può avere più grasso, ma questo è perché si muove di meno e si nutre più regolarmente di quanto farebbe in natura. Oltre a questo, i profili nutrizionali possono essere indistinguibili “, questo è quanto sostiene Sadasivam Kaushik, founder-director del Fish Nutrition Laboratory, National Institute of Agronomical Research (INRA) Bordeaux, Francia. Quando si tratta di gusto, il pesce selvatico di solito ha sapore diverso e distinto a seconda dei composti che assorbe dall’ambiente, come il bromofenolo, che conferisce un netto aroma di “mare”. Molte persone giurano di essere in grado di distinguere i pesci selvatici da quelli di acquacoltura una volta sul piatto, ma non è sempre vero.

Emilio Tibaldi, professore di acquacoltura presso l’Università di Udine co-autore di un rapporto per il Ministero dell’Agricoltura italiano, dice che un panel di assaggiatori messo insieme per la ricerca non è stato in grado di distinguere tra branzino selvatico e di allevamento. Il gusto e la consistenza del pesce possono variare molto a seconda dell’età e l’ambiente. Ogni specie ha un’età e un peso ottimale per il consumo, e per soddisfare la domanda di un mercato che richiede maggiormente porzioni più piccole, alcuni pesci di acquacoltura vengono venduti prima di sviluppare un gusto pieno. I pesci di acquacoltura hanno un leggero vantaggio in sicurezza perché il loro ciclo di vita è troppo breve per accumulare sostanze marine inquinanti come il metilmercurio.

Tuttavia, Tibaldi e Kaushik concordano nel sostenere che sia i pesci selvatici sia quelli di allevamento sottoposti a rigorosi controlli, sono sicuri una volta che raggiungono i nostri piatti. La gestione dei rifiuti può essere un problema per l’acquacoltura. Regolamenti comunitari obbligano gli allevatori a seguire norme rigorose per proteggere l’ambiente e la qualità dei prodotti, anche per quanto riguarda l’uso di antibiotici. Se si predilige il pesce, si è, molto probabilmente, interessati al loro contenuto di acidi grassi omega-3 che sappiamo essere essenziali per l’integrità delle membrane delle cellule e considerati utili per la nostra salute. Per conservare il contenuto naturale di omega-3, gli allevatori hanno bisogno di bilanciare la dieta dei loro allevamenti con cura, attraverso il ciclo di vita, sostiene Kaushik. In genere, i mangimi sono una miscela di proteine vegetali di olio e di farina di pesce ottenuti dalla cattura. L’olio, che fornisce gli omega-3 sta diventando una preziosa risorsa limitata.

In tutto il mondo, circa 18-20 milioni di tonnellate di pesce (circa il 12% della produzione globale di pesca) viene catturato ogni anno e trasformato in farina di pesce e olio di pesce, contribuendo in modo significativo a ridurre gli stock selvatici. Il progetto europeo ARRAINA coordinato da Kaushik, sta testando diversi modi per ridurre la quantità di mangimi prodotti dai pesci selvatici per l’acquacoltura. Tra le altre cose, hanno scoperto che è possibile ridurre la farina di pesce e olio di pesce fino a un quinto, sostituendoli con mangimi di verdure e senza compromettere la salute, la crescita, e il valore nutrizionale di molte specie comunemente allevate nella UE. Questi risultati sono importanti, ma non sufficienti data la crescita sbalorditiva del settore dell’acquacoltura mondiale. Pertanto, i ricercatori di tutto il mondo stanno cercando modi diversi per sostituire l’olio di pesce interamente con altre fonti. Nel 2014, il governo britannico ha approvato un processo di alimentare del salmone con semi di camelina che sono geneticamente modificati per la produzione di EPA e DHA. Un’altra alternativa può essere rappresentato dalle microalghe per estrarre gli acidi omega-3.

Si tratta di un vantaggio interessante, anche se i costi sono ancora proibitivi, dice Tibaldi. Un’altra strategia consiste nel modificare geneticamente il pesce in modo che possa produrre EPA e DHA partendo dall’acido alfa-linoleico, che può essere fornito da piante terrestri. “Le specie d’acqua dolce possono naturalmente sintetizzare EPA (acido eicosapentaenoico) e DHA (acido docosaesaenoico) da ALA (acido α-linolenico). Questa capacità si perde nelle specie marine, ma è ancora codificata nel loro genoma. La tecnologia per indurre questa produzione è a portata di mano. “Tuttavia molte persone si oppongono ancora a prodotti geneticamente modificati“, sostiene Kaushik.

Tags: acquacolturaOGM
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Co-founder e Direttrice di redazione. Pubblicista dal 2006 racconta il mondo da oltre un trentennio attraverso giornali, televisione e radio. Come conoscitrice del settore pesca e acquacoltura è stata più volte invitata a moderare e relazionare in convegni organizzati tra gli altri dalla Conferenza Episcopale Italiana – Ufficio nazionale dell’Apostolato del Mare, AquaFarm, Blue Sea Land.

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