L’acquacoltura può davvero ridurre la pressione sulla pesca? – Secondo i risultati di un nuovo studio intitolato “The search for blue transitions in aquaculture-dominant countries”, le affermazioni secondo cui un aumento della produzione dell’acquacoltura può ridurre la pressione sugli stock di pesce selvatico sono discutibili.
Pubblicato in un recente numero di Fish and Fisheries, gli autori Richard S. Cottrell, Danielle M. Ferraro, Gordon D. Blasco, Benjamin S. Halpern ed Halley E. Froehlich notano che: “La capacità dell’acquacoltura di fornire una fonte alternativa di pesce e frutti di mare alla pesca è stata un tempo promossa come uno strumento capace di ridurre la domanda di pesce selvatico e quindi di ridurre la pesca eccessiva. Ma, ad oggi, ci sono poche evidenze che suggeriscono che la crescita dell’acquacoltura abbia ridotto con successo lo sforzo di pesca sulle popolazioni selvatiche”.
Lo studio indaga sulla fondatezza della teoria della “transizione blu” guidata dall’acquacoltura. Questa postula che le popolazioni di pesci selvatici possono risanarsi come risultato della crescita dell’acquacoltura, tramite lo spostamento delle domanda di cibo da parte dell’uomo. Tuttavia, come osservano gli autori, la teoria deve ancora essere verificata.
“Non c’è mai stato alcun tentativo sistematico di capire se la riduzione della pesca guidata dall’acquacoltura si sia verificata nei paesi in cui l’acquacoltura oggi è la forma di produzione dominante”, spiegano.
“Per colmare questa lacuna, ci concentriamo sui paesi in cui la produzione dell’acquacoltura ha superato la pesca da cattura (denominati paesi “aquaculture-dominant”, quei luoghi in cui la transizione blu è ritenuta più probabile) e usiamo modelli statistici per identificare gli indicatori chiave degli sbarchi di pesce selvatico”, aggiungono.
Cosa qualifica un paese a predominanza di acquacoltura?
Per valutare quali paesi si qualificano come acquacoltura dominanti, i ricercatori hanno osservato quelle nazioni in cui la produzione da allevamento ha superato la produzione della pesca non oltre il 2017 – e la loro ricerca ne ha individuati 28 a livello globale. Tra questi Cina, India, Indonesia, Israele, Bangladesh, Vietnam, Singapore, Egitto, Honduras e Grecia. Hanno poi calcolato che il sovrasfruttamento degli stock ittici selvatici è probabile che avvenga ancora in 18 dei 28 paesi (cioè il 64%).
“Nelle nazioni aquaculture-dominant, quelle in cui la produzione dell’acquacoltura ha superato quella della pesca di cattura, evidenziamo che l’acquacoltura può avere effetti marginali sulla riduzione dello sforzo di pesca selvatica”, affermano. Tuttavia, sostengono che ci sono diverse variabili che influenzano e modellano la domanda per le diverse specie di pesce e frutti di mare.
“Mentre la crescita dell’acquacoltura può sostituire la pesca in una certa misura, ci sono altri fattori, come l’aumento della domanda pro capite di prodotti ittici, che incidono maggiormente sullo sforzo di pesca”, spiegano.
Quindi, nonostante il successo dell’acquacoltura nel fornire lavoro e cibo in alcuni paesi, non ha necessariamente avuto un impatto positivo sugli stock ittici.
“La teoria della transizione suggerisce che l’acquacoltura può inserirsi in uno scenario di instabilità produttiva derivante dalla cattura. Quest’ottica può essere applicabile in molte nazioni in cui la pesca eccessiva o la crescente volatilità degli ecosistemi marini possono aver portato a una stagnazione o a un declino della cattura selvatica, stimolando di conseguenza un maggiore interesse a stabilizzare l’offerta attraverso l’allevamento. Questa dinamica è osservabile in Grecia”, notano.
Concludono che ci sono poche prove che, laddove lo spostamento da pesca ad acquacoltura sia avvenuto, abbia portato a un recupero delle popolazioni selvatiche e quindi una vera transizione blu.
A meno che non sia completato da un’efficace politica di consumo alimentare, i prodotti ittici alternativi possono semplicemente aggiungere quantitativi piuttosto che spostarli da un metodo produttivo all’altro.
“Per la maggior parte delle nazioni acquacoltura dominanti, il sovrasfruttamento negli ambienti marini o d’acqua dolce rimane un problema e ha probabilmente contribuito all’attuale andamento della produzione ittica, sia in aumento che in diminuzione”, sostengono.
Allo stesso modo avvertono che il sovrasfruttamento della pesca (anche all’interno della maggior parte dei paesi acquacoltura dominanti) “continua ad essere pervasivo e che qualsiasi minimo effetto di spostamento dall’acquacoltura è improbabile che abbia compensato gli impatti ambientali creati dal settore in crescita”.
Un avvertimento per uno stop al consumo dei prodotti ittici?
È interessante notare come i ricercatori reputino come l’acquacoltura possa avere un impatto limitato sulla conservazione degli stock ittici. Di conseguenza, essi sostengono che i responsabili politici devono contribuire a garantire che i nuovi settori alimentari si sviluppino in modo sostenibile.
“L’ascesa dell’acquacoltura come forma di produzione alternativa può fornire spunti preziosi per le industrie in crescita che sviluppano nuovi alimenti sostenibili. A meno che non sia accompagnata da un’efficace politica di consumo alimentare, tali prodotti possono semplicemente aggiungere piuttosto che sostituire, non contribuendo a ridurre gli impatti ambientali della produzione alimentare umana”, concludono.